martedì 27 agosto 2024

SVEN GORAN ERIKSSON CI HA LASCIATO. IO LO RICORDO PER LA FANTASTICA NOTTE DEL 29 APRILE 1998

Educato, sensibile e gentile, gran conoscitore di calcio e di uomini, seppe trasformare una sconfitta annunciata nella vittoria che diede inizio all'era d'oro della Lazio di Cragnotti.

Il mio ricordo di Sven Goran Eriksson è legato ad una partita particolare. Era il 29 aprile del 1998 e ancora la Lazio non era il dream team che sarebbe diventata da li a pochi mesi. Sulla panchina c’era questo signore biondo, compassato, molto gentile. Cragnotti lo aveva chiamato alla guida della Lazio per avviare quel percorso da sogno che avrebbe portato la prima squadra della Capitale ad affermarsi come una delle squadre più forti del continente, addirittura, per qualcuno, del mondo. I biancocelesti stavano disputando la gara di ritorno della finale di Coppa Italia contro il Milan. A San Siro l’avevano spuntata i rossoneri per 1 a 0, con goal di George Weah (che poi diventerà il Presidente della Liberia). 

Eravamo entrati allo Stadio Olimpico con mio figlio Simone, che allora aveva sette anni qualche minuto dopo il fischio di inizio, complice l’atavica difficoltà, mai risolta, di trovare un parcheggio nei pressi della struttura. Inutile il tentativo, miseramente fallito, di trovare i nostri posti nella Tribuna Tevere nella bolgia generale. Trovammo un paio di posticini nel parterre, verso la Curva Nord. Il clima era elettrizzante. Era dal 1958, data della prima vittoria in Coppa Italia, primo titolo conquistato dalle aquile, che la Lazio non si giocava qualcosa di importante. L’ambiente era carico, pochi giorni prima la squadra di Eriksson aveva conquistato l’accesso alla finale di Coppa Uefa e, nonostante in campionato non fosse ancora protagonista (terminerà la stagione all’ottavo posto), già si sentiva soffiare il vento dell’era Cragnotti. Ma torniamo al parterre della Tevere di quel 29 aprile. Un corpulento tifoso, posizionato un po’ meglio rispetto a noi, si caricò Simone sulle spalle per fargli vedere il campo. Solidarietà tra tifosi. I fumogeni, allora permessi, rendevano l’atmosfera surreale. 

Primo tempo così così. Il regolamento rendeva necessaria una vittoria con almeno due gol di scarto, ma il risultato non riusciva a sbloccarsi. Coniugare la necessità di fare gol con quella di non prenderli rendeva la gara impastoiata con il primo tempo che finì a reti bianche, con il Milan virtualmente Campione. La ripresa iniziò nel peggiore dei modi: dopo una manciata di secondi, Albertini, su punizione porta a due i gol di vantaggio globali. Sembrava l’ennesima beffa per la solita lazietta a cui mancavano, come sempre, come si dice dalle parti mie in Umbria, “du’ sordi pe fa’ na lira”. E poi, il miracolo. 

Quel signore biondo e un po’ compassato trasferì ai giocatori la grinta, la voglia di ribaltare il risultato ormai compromesso. E fu la storia. In undici minuti la Lazio fece il miracolo. Sotto la sua Nord, i pavidi giocatori del primo tempo si trasformarono in undici leoni, in undici gladiatori che lottavano per un solo risultato, la vittoria. E furono Mancini, Jugovic e Nesta a scrivere una delle pagine più belle della storia della Lazio. E il loro condottiero fu proprio Sven Goran Eriksson, il tecnico svedese forte e gentile che ci ha lasciato, sconfitto da un male incurabile. 


Lo ricordo sommerso dall’abbraccio dei suoi giocatori e dei suoi dirigenti, stringendo tra le mani quella Coppa che segnò l’inizio dell’epoca d’oro dei biancocelesti capitolini. Quel ricordo, quell’immagine, intravista tra l’esultanza irrefrenabile del parterre della Tribuna Tevere, mentre saltavo e abbracciavo il mio (allora), piccolo Simone è il ricordo più bello della mia Lazio. Grazie Sven, Mister educato e gentile. La pagina che hai scritto della storia della Lazio non verrà mai cancellata. Vola, libero, nei colori del cielo che, non a caso, sono il bianco e il celeste che hai portato sul tetto del mondo.

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