Motivazione. Quante pagine sono state scritte in campo
sportivo su questa parola. Non sono uno psicologo ne’ un mental coach, ma
spessissimo mi sono dovuto confrontare, nelle ormai migliaia di gare che mi
hanno visto in ruoli diversi presente, con allenatori e dirigenti che facevano
del dovere di “caricare” la squadra prima del match, la loro cifra distintiva,
a partire dall’attività di base. Ma incitare i giocatori prima della gara, è
veramente efficace? Badate bene, non parlo di incoraggiare, di farli sentire
importanti, di far loro gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma di spingerli ad
un agonismo esasperato, ad esaltare la competitività, a far vivere ogni gara
come una battaglia, gli avversari come nemici, il risultato come il fine,
indipendentemente dai mezzi utilizzati per conseguirlo. Qual’è il fine autentico
dello sport? In questi tempi così difficili, dove la violenza sembra il metodo
che uomini e popoli scelgono deliberatamente di utilizzare per dirimere le
controversie tra loro, anche lo sport, secondo me ha il dovere di dire la sua e
di proporre comportamenti e modalità di rapportarsi che vadano controcorrente,
diventando, inconsciamente o meno, uno strumento di attenuazione e gestione dei
conflitti, sia personali che collettivi. Uno strumento, perdonatemi il pizzico
di retorica, per educare i giovani alla pace. Ma torniamo al tema di oggi, la
motivazione. Molti allenatori, anche delle categorie di base, offrono
spettacoli che, eufemisticamente, definirei imbarazzanti. Urla, minacce, colpi
sulla panchina, borracce prese a calci, attacco agli arbitri (quando ci sono).
Ma anche guidare le squadre dei piccoli atleti come si si avesse tra le mani il
joystick della Playstation. Ma, mi chiedo, si può giocare bene per paura? Io
sono convinto che aveva ragione Carl Popper quando, nella metà del secolo
scorso, affermava che la crescita di una persona ha origine dal ripetersi di
tentativi ed errori. Al giovane giocatore, specialmente nella sua fase di
formazione, non bisogna impedirgli di sbagliare, urlandogli quando tirare, a
chi passare la palla o che posizione di campo occupare. Al contrario, deve
poter sbagliare, e sottolineerei il “deve”. Dalla consapevolezza dell’errore
nasce la ricerca della soluzione per non ripeterlo la prossima volta e, questo,
passando attraverso la conoscenza sempre più profonda dei propri punti di forza
fisici e mentali e degli altrettanti aspetti da migliorare su cui lavorare.
L’allenatore allora diventa un facilitatore, un adulto rassicurante in grado di
incoraggiare, di combattere i momenti di demoralizzazione, applaudendo i bei
gesti senza stigmatizzare gli inevitabili errori. Non può essere colui che ha
in mano tutte le soluzioni (forse solo il Padreterno è capace di tanto, ma ha
scelto un altro mestiere), ma colui che si mette a disposizione per trovare il
modo di applicare al meglio quello che già possiede in sé il calciatore in
erba. Motivare, allora, è generare entusiasmo, far accettare con consapevolezza
i propri punti deboli, fare, in una parola, divertire e divertirsi.
L’Allenatore è quello che fa imparare all’atleta la conoscenza di sé stesso. Credo
che se Maradona avesse avuto un tecnico che gli avesse impedito di “sperimentare”
e di sbagliare, il mondo del calcio non avrebbe ammirato gli straordinari colpi
che il Campione ci ha regalato. Sicuramente non è stato un allenatore a
insegnargli certe giocate, perché il talento, quello vero, ce lo regala la
natura e un allenatore è bravo se riesce a tirarlo fuori e a valorizzarlo,
incoraggiando, chi lo possiede, a metterlo a disposizione della squadra. Anche
perché, creare una dipendenza tra un adulto che usa il proprio potere per
spingere un giovane uomo o una giovane donna a giocare, comportarsi, vivere (o
anche tutte queste cose insieme), secondo diktat prestabiliti, secondo me, è
pericoloso. Pensare di usare l’eccessivo agonismo per vincere, non solo è
sbagliato, ma, torno a dire, è pericoloso. Si creano giocatori aggressivi, che
spesso non rispettano gli avversari, che si abbandonano a ignobili sceneggiate,
che simulano falli inesistenti. L’Allenatore dell’attività di Base è un
formatore, che lavora sui singoli giocatori per farli crescere e insegnare loro
a giocare insieme, mentre un Allenatore di Prime Squadre ha l’obiettivo di far
rendere al meglio il gruppo che gli è stato affidato. È facile, come dicevo
prima, creare dipendenza tra un giovane atleta e il proprio allenatore. E dalla
dipendenza è purtroppo facilissimo scivolare nell’abuso vero e proprio, creare
sudditanza psicologica che, nei casi più estremi, rischia di sfociare anche
nell’abuso di tipo sessuale. L’Allenatore deve motivare all’autonomia, anche a
quella decisionale sul terreno di gioco. Giocare con gli altri e adottare una
soluzione deve comunque essere una scelta e non una imposizione o una
indicazione che proviene da un altro. Educhiamo all’errore! E a trovare
soluzioni agli errori commessi. Più daremo la possibilità di sbagliare, più i
nostri ragazzi troveranno soluzioni al problema. E, molto probabilmente, le
soluzioni che troveranno loro saranno maledettamente migliori di quelle che il
più bravo di noi allenatori saprebbe suggerire.
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