Il Menestrello del pallone: L'ansia di sbagliare un goal a porta vuota!

 

L’ansia. Quella cosa che ci prende alla bocca dello stomaco e ci leva il sonno quando dobbiamo affrontare qualcosa che ci fa uscire dalla nostra confort zone. La conoscono bene gli attori di teatro quando sta per aprirsi il sipario, gli studenti quando vanno a sostenere un esame e tutti gli sportivi quando stanno per scendere in campo, a qualsiasi livello. L’ansia, quel nemico impalpabile che ti fa dimenticare la battuta o sbagliare la data in cui Colombo scoprì l’America o sbagliare quel gol facile facile a porta vuota. Una compagna scomoda e anche antipatica che, se non gestita nel modo dovuto, può fare danni importanti, primo dei quali l’infelicità.

Oggi, uno degli elementi che un allenatore deve saper allenare nei propri giocatori, piccoli e grandi, è proprio la gestione dell’ansia. I ragazzi di oggi vengono al campo dopo una giornata programmata fino all’esasperazione. Sveglia, scuola, compiti, lezione di musica, catechismo, lezione di inglese e alla fine, finalmente, il pallone. Per molti di loro è l’unico spazio dove possono esprimersi in quello che è alla base della crescita di ogni umano, il gioco. Il luogo dove poter dare spazio alla propria creatività, ai propri sogni, dove poter muoversi e pensare, liberi da condizionamenti e, soprattutto, da giudizi. Il giudizio uccide, il rimprovero non stimola, offende, l’urlo dell’allenatore non incita a fare meglio, ma, spesso e per molti, viene vissuto come una umiliazione. Non esiste al mondo un atleta che vuole giocare male, ma l’atleta di oggi, dobbiamo farcene una ragione cari amici allenatori, non è quello di ieri e i metodi di oggi non possono essere quelli di ieri. E ve lo dice uno che di giri di campo ne ha fatti più che la distanza tra la terra e la luna. Oggi, il bravo allenatore deve, per dirla come il mio amico Luca Palazzoli, psicologo dello sport di chiara fama, saper allenare all’ottimismo. Insegnare non solo a calciare o a chiudere la diagonale, ma anche a saper gestire l’errore, a voler cercare il miglioramento continuo. Il campo di calcio non è più una caserma, ma una scuola di vita, l’autorità fine a sé stessa deve lasciare spazio, se il nostro allenamento vuole essere davvero efficace, all’autorevolezza costruita e, soprattutto, riconosciuta. L’allenatore, più che un educatore (parola con cui ci si riempie troppo spesso – e molte volte a sproposito – la bocca) deve imparare ad essere Leader. Competente, preparato, con una grossa cultura del lavoro e principalmente, secondo me, capace di far divertire i cuccioli d’uomo, per rubare una felice espressione a Kipling, facendogli fare il più bene possibile lo sport che amano. E anche imparare a gestire i troppi genitori che si credono tutti novelli allenatori (più bravi di quello che sta in campo) in grado di elargire consigli, criticare l’arbitro, correggere tecnicamente squadra e figli, cronometrare i secondi in cui il figlio ha giocato.

Mio padre non mi ricordo sia mai venuto a vedere un mio allenamento o una partita quando giocavo nelle giovanili, eppure era un grande esperto di calcio. E non ha mai commentato una mia prestazione. La sua preoccupazione è stata sempre quella di vedermi felice, in un ambiente sano e sicuro, con gli amici giusti. È sempre stato una persona che ha saputo vedere lontano e mi piace credere che sia stata proprio questa la vera eredità che mi ha lasciato.

Oggi, come ieri e come domani, i nostri piccoli e grandi atleti hanno bisogno di avere intorno meno giudici possibile e più persone che li aiutino a vivere lo sport come un gioco, bellissimo, appassionante, impegnativo, faticoso, ma sempre e comunque un gioco. Senza paure, ansie e, possibilmente, sempre con il sorriso sulle labbra.

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