Il Menestrello del pallone: Alleniamci a convivere con i nostri limiti! Il ruolo di chi si considera "Educatore".

Che cosa sono i limiti? È di fondamentale importanza interrogarsi sul significato di questo concetto per avvicinarsi correttamente allo sport e alla vita. In natura non esistono valori assoluti, anche perché ogni strumento di misurazione ha quella che noi, fisici più o meno dilettanti, chiamiamo “tolleranza”. L’orologio più perfetto, il calibro più preciso, hanno una differenza tra la misurazione effettuata e le misure reali del campione. Uno degli strumenti più precisi costruiti dall’uomo è l’orologio atomico, che misura il tempo basandosi sulle vibrazioni di alcuni atomi. Eppure, uno strumento così perfetto, ha comunque un errore di almeno un secondo ogli 10 milioni di anni. 

Un’altra macchina, sicuramente più complessa è il corpo umano, un insieme di sistemi elettrici, meccanici, ottici, idraulici, chimici e biologici, molto vicino alla perfezione, comandato da una straordinaria centralina che gli scienziati affermano che risieda nel cervello, che ci comunica la necessità di dormire, di nutrirci, di idratarci, di espellere le scorie liquide e solide, di riprodurci, di coprirci o scoprirci quando il differenziale tra la temperatura dell’ambiente esterno e quella del nostro corpo divergono in maniera significativa. La differenza tra quello che rappresenta l’ottimale e quello che il nostro corpo e la nostra mente riescono a realizzare, è proprio il nostro limite.

E qui si pongono due domande fondamentali: come modificare i nostri limiti e come conviverci, una volta stabiliti e conosciuti.

Rimaniamo nell’ambito sportivo, che è quello che ci interessa. Lo sport ci indica la strada maestra, l’allenamento. Qualsiasi funzione umana, fisica o intellettuale può essere migliorata con l’allenamento. L’allenamento è una attività calibrata e ripetuta nel tempo che porta al miglioramento delle performances. Calibrata perché deve essere proporzionata alle nostre caratteristiche personali, al nostro stato di forma, alle nostre reali motivazioni. Continuativa perché i miglioramenti, a differenza delle mutazioni, sono graduali e tendono ad attenuarsi o addirittura a scomparire, con il variare dei ritmi e dell’intensità dell’allenamento stesso. E poi, quando si raggiunge il proprio limite e se ne prende coscienza, scatta la chiave della consapevolezza, la vera svolta tra felicità e frustrazione.

Troppe volte mi sono trovato a che fare con colleghi (nella vita faccio l’insegnante) che sono tristi e demotivati, che sognano di insegnare nel migliore Liceo Classico e che invece si ritrovano a parlare di Dante o di Manzoni ai ragazzi della Formazione Professionale che non ritengono (a torto, ovviamente) che la letteratura sia particolarmente utile alla loro vita e alla loro voglia di entrare precocemente nel mondo del lavoro. Se vissuta così, la vita di chi magari ha studiato e sostenuto decine di esami universitari, diventa un vero calvario. Si accumula delusione, frustrazione, depressione e, magari, perdita di autostima.

È esattamente quello che capita a molti dei nostri ragazzi che vengono alla Scuola Calcio con tante aspettative (soprattutto da parte dei propri genitori) e tanti sogni. 

Aiutare i nostri figli, che sono bambini e non adulti in miniatura, a prendere coscienza dei propri limiti è il primo dovere di ogni mamma e papà che si rispetti. Un bambino, ma anche un adulto, che comprende quello che può fare e dove può arrivare e riesce a farlo, è una persona felice. 

Essere educatori, formatori, genitori, insegnanti, allenatori vuol dire avere la consapevolezza di essere in grado di avvicinare il più possibile, con il trascorrere del tempo, il sogno alla realtà. Ho visto nella mia vita operai felici di saper fare bene il proprio lavoro e di riuscire a portare il pane a casa tutti i giorni e ricchi medici o ingeneri tristi e depressi. Ho conosciuto Allenatori felicissimi e realizzati nell’insegnare calcio e trasmettere i valori dello sport a bambine e bambini che salvo rare eccezioni, non faranno del football il loro mestiere e tecnici che siedono sulle panchine di Serie A, allenando atleti di primissima fascia e guadagnando tantissimi soldi, sentirsi infelici.

I soldi, qualcuno dice, non fanno la felicità (Alberto Sordi con il tipico cinico umorismo romanesco ribadiva “figuriamoci la miseria!”). Sicuramente non migliorano la performance sportiva. Ho conosciuto genitori che davano un premio in denaro ai figli per ogni gol che segnavano. Secondo me non si può far passare il concetto che tutto ha un valore economico, anche perché, per quanto ci possano pagare, dubito che i pochi lettori dei miei scritti (me compreso ovviamente) possano riuscire a correre il 100 metri in meno di dieci secondi!

Se i nostri ragazzi sognano di diventare calciatori, alimentiamo i loro sogni con l’incoraggiamento e il sostegno continuo, senza trasformarci in giudici inflessibili dei loro errori e mantenendo la necessaria leggerezza di chi considera lo sport sempre e solo una forma di benessere e di divertimento. Essere felici quando nostro figlio vince o fa gol e tenere il muso quando le cose non vanno altrettanto bene, non è ne’ produttivo, ne’ tantomeno educativo. E non sarebbe male se quando la sera ci si raduna intorno al tavolo (per chi mantiene ancora questa ormai vetusta consuetudine), non si parli solo delle inadeguatezze di un povero allenatore di provincia che non ha fatto giocare abbastanza il nostro casalingo campioncino, ma che si rifletta insieme, magari sulle terribili guerre a Gaza e nell’Ucraina e sui danni del cambiamento climatico. Discutendo, confrontandoci, magari esprimendo la non identità di vedute. Lanceremo così il messaggio che il calcio, alla fine, non è poi così importante. E, questo, paradossalmente è il modo migliore per viverlo meglio e per rimanere, come è capitato a me, tremendamente innamorati del gioco più bello del mondo.

Marco Giustinelli

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