Il Menestrello del pallone: Piove (anzi, grandina), Governo ladro!
Un padre salta la recinzione, si
precipita in campo e sferra un pugno al portiere delle squadra avversaria, un
ragazzo tredicenne. Continua a picchiarlo fino a quando, superata la sorpresa,
dirigenti di entrambe le squadre in campo non riescono a bloccarlo. Una storia
che comincia su un campo di calcio in un caldo pomeriggio d’estate e terminerà verosimilmente
in un ospedale e in una aula di tribunale. È questo che accade in un momento
del calcio giovanile tra i più delicati della storia del nostro sport. Di
solito i protagonisti erano arbitri e allenatori. Da oggi si inserisce, con ben
poco vanto, anche la categoria dei genitori. Un clima di violenza che poco “dovrebbe”
avere a che fare con il calcio e che, invece, sembra essere diventata la cifra
distintiva di questi tempi. La domanda che ogni persona di buona volontà si
dovrebbe porre è “cosa possiamo fare, noi che del calcio siamo inguaribilmente
innamorati, per arginare un fenomeno che rischia di rompere un giocattolo già
visibilmente incrinato”?
Innanzitutto, mettiamo da parte
la filosofia del “piove, governo ladro”. Se le cose vanno bene, il merito è di
tutti, indipendentemente dal ruolo che ricopriamo nel variegato mondo della
pelota, ma se il sistema prende una piega negativa, siamo tutti parimenti
responsabili.
E allora, rifacendomi alla nota Teoria
degli alibi di velaschiana memoria, devo chiedermi io per primo come posso
intervenire? È fondamentale sentirsi soggetti attivi nei processi di
cambiamento, elementi costruttivi della cultura della sana competizione che,
almeno in teoria tutti diciamo di volere. Lo scemo di turno lo troviamo e lo
troveremo sempre in tutti gli ambiti dove sono presenti degli umani, ma il
compito di chi vuole veramente bene al calcio è quello di isolarlo, di evitare
che una folla di assatanati si scagli regolarmente contro un ragazzo con il
fischietto in mano urlando, nella migliore delle ipotesi, insulti verso la
mamma colpevole, a loro dire, di professare il mestiere più antico del mondo,
in tutte le sue forme e declinazioni. Cominciamo a costruire, insieme, una
cultura del tifo, lavoriamo sulla figura del genitore che sia un alleato e non
una controparte. La famiglia deve contribuire a instillare serenità e non
aggiungere tensione. Ricordiamoci che la Federazione a cui siamo affiliati,
porta nel suo nome la parola “giuoco”. Il calcio deve rappresentare, nella mente
di chi lo vive, un gioco, un luogo dove esprimere la felicità, dove vivere
emozioni sane, dove fare amicizie, dove curare il nostro corpo e le nostre
emozioni in modo sano e sicuro.
Ricordiamoci che in Italia ci
sono circa 40.000 professori universitari, 10.000 magistrati, 3500 diplomatici
e solo 240 calciatori italiani che giocano nelle 20 squadre di serie A (dati
FIGC 2022/2023) su oltre 1 milione e duecentomila di calciatori tesserati.
Questo vuol dire che la probabilità di raggiungere un livello economico di
prima fascia giocando a pallone è estremamente più bassa di chi invece guarda
alla professione come obiettivo di sostentamento. E teniamo bene a mente che un
lavoratore dipendente moltiplica il suo reddito per, mediamente, una quarantina
d’anni, mentre per un calciatore professionista il periodo di lavoro si riduce
di almeno due terzi.
Armiamoci quindi una bella calcolatrice
e facciamoci due conti e scopriremo che per il milione e quattrocentomila umani
che gravitano nel mondo del calcio targato FIGC, lo sport rappresenta
sicuramente passione, agonismo, visibilità sociale, salute fisica e mentale, ma
è veramente improbabile che diventi la via della ricchezza.
Questo vuol dire che se ci
liberiamo dal parametro economico (sia reale che immaginario), le tensioni
intorno alla sfera che rotola si attenuano drasticamente. Oggi invece, la
famiglia ha cambiato il suo punto di vista. Da soggetto beneficiario di un
servizio si è passati a quello del cliente (viste anche le quote di iscrizione
alle Scuole Calcio) e mentre i primi tendevano a ringraziare, i secondi tendono
a pretendere. E, alzando a dismisura le aspettative, parimenti si innalza il
livello di tensione intorno al rettangolo verde e la violenza diventa una
rivalsa quasi naturale verso chi ti nega un calcio di rigore o insulta il tuo
campione in erba. L’allenatore si trasforma da soggetto che si mette a
disposizione della comunità per far crescere bambini e ragazzi in un contesto
sicuro, a persona che, con dubbie competenze, taglia le gambe a chi avrebbe
tutte le caratteristiche per essere un nuovo Diego Armando Maradona.
E allora giù critiche agli
arbitri, alle società, ai tecnici, agli avversari. Piove, Governo ladro! E la
tensione aumenta. E, finora, il principale mezzo di contrasto adottato è stato
quello sanzionatorio. Da questa stagione, ad esempio, i comportamenti nei
confronti di un Direttore di gara sono stati equiparati, dal punto di vista
penale, a quelli nei confronti di un pubblico ufficiale, con relativo
inasprimento delle sanzioni. Così come chi proferisce espressioni di
discriminazione razziale in campo, rischia di non giocare per dieci giornate.
Ma non è questa, secondo me la
strada ottimale da perseguire. Occorre rinforzare la cultura del dialogo, della
comunicazione efficace, dello stile di conduzione di un allenamento o di una
gara, del linguaggio sobrio e inclusivo. Non dobbiamo solo punire, ma metterci
in condizione di evitare che un episodio accada, che una frase venga proferita,
che un atteggiamento venga messo in atto.
Questo vuol dire fare cultura.
Altrimenti … piove, anzi grandina, Governo ladro!
Marco Giustinelli
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